Biografia di Ettore Innocente

Autoritratto 1940-1976 Nato a Roma nel 1934 e presente sulla scena dell’arte contemporanea dagli anni sessanta fino alla sua scomparsa, nel 1987. Attivo fin dal tempo in cui frequentava l’Accademia di Belle Arti di Roma, compagno di studi e amico di Pascali e Kounellis, allievo di Scialoja, inizia la sua ricerca con opere pittorico-materiche (mai esposte o viste ).

Il suo esordio è del 1965, accompagnato da quello scopritore di talenti che all’epoca fu Cesare Vivaldi: nella sua prima mostra personale alla Salita di Liverani, espone lavori che momentaneamente lo accomunano al panorama della cosiddetta pop art romana. Nel medesimo anno la Galleria La Salita lo invita a partecipare alla mostra collettiva Corradino di Svevia - mostra a soggetto , insieme a Ceroli, Festa, Lombardo, Mambor, Mauri, Mondino, Pascali, Schifano, Tacchi, Titone. Nel 1966 partecipa a mostre di gruppo (con Angeli, Ceroli, Fioroni, Festa, Kounellis, Lombardo, Mambor, Pascali e Tacchi) nelle gallerie romane La Salita e La Tartaruga, dove espone opere in plastica colorata, liscia o ondulata, in cui lo stereotipo figurativo è scomposto in elementi primi ritagliati e imbullonati al telaio con un’impostazione spaziale che non si limita alla semplice aggettazione di piani rigorosamente Pop, ma inventa una curvatura fortissima del pannello in primo piano.

Nel 1967 presso la Galleria La Tartaruga, coagulo di discussioni, scambi, passioni, punto di riferimento della cosiddetta Scuola di Piazza del Popolo, presenta una serie di sculture a parete fatte di materiale plastico industriale, alcune con marcati inserti di colore, altre, poi riproposte anche al Naviglio di Milano, bianche e dal forte impatto spaziale: Forse graffio, Forse taglio e Sollevatore bianco verticale rimandano ironicamente a Fontana, continuando il dialogo con la tradizione artistica iniziato già con la sua prima mostra (Michelangelo, Modigliani, Jasper Johnsons alla Casa Bianca… ). ...Nel bianco non soltanto ritrovo il senso dell’incominciare e quello di vedere per la prima volta le cose, ma anche quello di smitizzarle, di renderle asettiche, di anonimarle, per poi riproporle con un significato diverso e, forse, anche banale di giuoco limite. I miei oggetti sono una bianca ipotesi in un mondo di daltonici e l’ironia di ospedalizzarli (cioè di renderli necessari di cura perché trascurati) ne consegue direttamente. (Ettore Innocente)

Sempre nel 1967 viene invitato alla V Biennale des Jeunes Artistes a Parigi, dove espone Fratelli Fabbri, grande libro in plastica, summa di citazioni pittoriche, perduta nei magazzini della Galleria Nazionale d’Arte moderna di Roma.

Conquistatosi un suo spazio nel versante delle nuove tecniche dell’arte, Piero Sadun, direttore della neonata Accademia di Belle Arti dell’Aquila, lo invita per affidargli il corso di Tecniche dei nuovi materiali.

Nel 1968 è invitato a partecipare al Teatro delle mostre, serate di mostre e azioni ideate da Plinio De Martiis della Galleria La Tartaruga di Roma, che si rivelerà testimone del punto di svolta della ricerca artistica di quel periodo. In tale festival, svoltosi nel mitico maggio 1968, nell’aria di contestazione del sistema anche dell’arte, in piena utopia dell’antimercificazione dell’arte, Innocente realizza l’ambiente Camera fiorita :

la camera ha le pareti ricoperte di lastre bianche in plastica. Sopra, girandole a forma di fiori. I fiori girano quando arriva una folata di vento. I fiori si muovono pure al tocco della mano o con un piccolo soffio (Achille Bonito Oliva).

Le forti trasformazioni di quest’ultimo scorcio degli anni sessanta hanno condotto la riflessione artistica ad uscire dal perimetro del quadro, questa antiquata finestra che non riusciva più a trattenere nella sua cornice tutto lo spettacolo del mondo (Boatto): la protesta sociale dell’autunno caldo, accompagna la riflessione sui meccanismi stessi che governano il sistema dell’arte, sul significato di fare arte e le ragioni sociali che la sostengono. E’ l’avvio di profondi mutamenti introdotti nel modo di pensare il fare arte della stagione concettuale.

Da ora in poi la ricerca di Innocente si avvia verso una stagione più matura e solitaria:dopo aver sperimentato l’esperienza dell’ultima pittura possibile trasferirà la propria ricerca, stabilmente e senza ripensamenti di comodo, sul terreno assolutamente non garantito dell’extra pittorico.

Nel 1969, avviene per Innocente, il passaggio dall’opera al dispositivo di interazione diretta con il pubblico: invade gli spazi della galleria La Salita con strisce di stoffa pesante, agganciate ai muri e al soffitto con occhielli metallici per consentire allo spettatore di agire agganciandoli e sganciandoli senza alcun costrutto (il caso muove l’asse) o una serie di maniglie cucite su una striscia di stoffa appesa al soffitto e chiusa su se stessa possono essere usate per far muovere la tela sperimentando a pieno il titolo di Azioni inutili. Prendendo le distanze, ironicamente come sempre, dall’ideologia dell’happening o della performance, la riflessione di Innocente qui è invece incentrata sul richiamo (in absentia) alla necessità di selezione, mirata alla costruzione di relazioni di senso vincolate e in cui si definisce chiaramente il ruolo dell’artista e del suo pubblico.

E’ del 29 Ottobre del 1969 l’azione 100 metri di libertà, in cui una bobina di tela grezza da 10cm di larghezza e 32 cm di diametro, fissata al centro del pavimento del proprio studio, viene srotolata dall’artista fino al suo esaurimento, dallo studio alla strada. Quota di libertà concessa dal circuito dell’arte, dal proprio ruolo sociale, manifestazione chiara dei limiti imposti al libero pensiero, alla libera espressione, dalla mercificazione, non più solo dell’arte ma di ogni prodotto umano, perfino dell’uomo stesso. Presone coscienza taglierà questo “cordone ombelicale” per sviluppare un progetto estetico che comporti, con la propria, la “liberazione” dell’arte e che troverà nei Take one degli anni Settanta la sua “forma” paradossale.

Dopo la mostra alla Salita delle grandi fasce che cambiavano lo spazio interno, ho realizzato un nuovo lavoro. Continuava ad interessarmi lo spazio; ma ancora dal punto di vista oggetto: fasciavo grandi telai che significavano per me contenitori di vuoto, di spazio;fasciavo gli oggetti contenenti aria e compressioni, come le molle fasciate del 1969. Poi ho realizzato la cosa che mi ha portato a pensare allo spazio in maniera sempre più libera: fissavo punti (chiodi) su un qualsiasi muro o parete o pavimento fasciando i punti, unendoli insieme con questa bava. Ma l’azione era limitata alla stanza nella quale lavoravo e così ho sentito il bisogno di uscire da quella forma entrando in altre stanze, fino in strada, alla fine della possibilità della fascia vita (questa era della lunghezza di cento metri); tornavo ad arrotolare il tutto fino al punto di partenza. Facevo poi un rilievo preciso dell’itinerario percorso, la pianta della casa, delle scale,della strada. I punti esattamente rilevati da un disegno tecnico poi cianografato per documentare l’azione. In fondo il mercato non avrebbe avuto in mano l’opera ma solo il rilevamento. La “scultura-lavoro” per me era solo il percorso, poi non esisteva più niente; in ogni uscita trovavo un’altra possibilità e si risolveva solo in quei cinque o sei minuti dell’azione, di aria. Poi niente, il buio, il vuoto, lo spazio trovato e consumato realizzato, fissato, di mia proprietà. Ma era sempre un limite: cominciavo a pensare a uno spazio –vita, sempre più libero, dove lo spazio ero io e non percorrevo niente, ma tutto era spazio. Questo significava distruggere assolutamente l’oggetto. E’ il mio nuovo lavoro!

In seguito la documentazione dell’azione è stata esposta nel 1972 in occasione della mostra personale alla Bertesca di Genova, mentre il dispositivo, la bobina, solo molto più tardi, dopo la sua morte, nel 1995.

L’accento posto sul ruolo attivo del pubblico nel processo di definizione dell’arte iniziato a fine anni sessanta e l’indagine sullo spazio e la distruzione dell’opera d’arte contemplativo-simbolica, funzionale al mercato, condurrà l’artista nel 1970 all’eliminazione del rapporto fra opera-immagine sublimata nella durevolezza e pubblico che contempla ed eventualmente compra: nel ciclo di lavori Take one la forma proposta è solo un “gene” funzionale formato ad esempio da un parallelepipedo composto da suoi sottomultipli di 1 cmx1cm x10, da prelevare liberamente da parte dei fruitori, modificando il “seme” iniziale fino alla sua sparizione per esaurimento e dilatandone in modo imprevedibile l’esistenza nello spazio e nel tempo.

Ecco come l’artista descrive il suo lavoro in alcuni appunti inediti trovati dopo la sua morte:

Un quadro risulta un particolare dello spazio. Questo può venire in avanti, verso l’osservatore o può andare dentro la parete formando così una piccola linea-tensione fisica dello spessore del particolare, può diventare oggetto, può suonare,vibrare, può cambiare materiale, ma sarà sempre un particolare, una particella,una rappresentazione, quasi, dello spazio che osservo sempre dal di fuori: e questo è un vedere contemplativo…ma questo modo a me non interessa più e sento il bisogno di entrare finalmente in un oggetto-struttura, farne parte essenziale…Pensando allo sfaldarsi, alla distruzione della forma contemplativa, ridurre a zero questa forma significa che i frammenti risultanti non sono andati perduti ma si sono diluiti nello spazio, sono tornati ad essere spazio. Questa erosione-distruzione l’ho realizzata in questo modo: ho fatto tagliare delle barre in alluminio in elementi dello spessore di 1cmx1cm lunghi cm10; con questi elementi ho formato un parallelepipedo di cm.27x8x10 di altezza, per un totale di 216 pezzi. Queste misure sono date dal caso, come se avessimo scelto un oggetto qualsiasi, ovvio, quasi trovato; il tutto è posto al centro di uno spazio qualsiasi….Questi elementi che io chiamo vettori, non sono altro che generatori di una “scultura-spazio” e verranno prelevati da qualsiasi individuo che lo vorrà: questi sarà l’energia prima che farà muovere e realizzare la scultura in ogni senso e direzione. Ovunque questo vettore verrà portato farà di conseguenza muovere la scultura: la nuova “forma” che ne risulterà non sarà contemplativa ma saremo anche noi forma e spazio nello stesso tempo.

La prima mostra dedicata ai Take one si svolgerà alla Galleria GAP, nel 1971. Così recitava la didascalia del lavoro scritta dall’artista: Take one 1970 (Ipotesi per una dilatazione fruitiva).Lavoro composto di 1500 microelementi in trafilato di ferro cm.1x1x7 (vettori), facenti parte di una forma iniziale statico-contemplativa (gene), per divenire poi azione, in continua dilatazione nello spazio attraverso il fruitore, fino a totale esaurimento del gene stesso.

L’amicizia con il critico-poeta Emilio Villa si fa più fitta e la si può godere tralucere nei testi prodotti in occasione di varie mostre personali lungo il corso degli anni Settanta. Ecco l’epigrafe del libro-oggetto-catalogo della mostra:

Emilio Villa con Ettore InnocenteUna coincidenza acuta di pensiero

e di asserzione militante

(qui: SCULTURA di Ettore Innocente;

cioè, L’OPERAZIONE di Ettore Innocente

nell’antro detto GAP nel giugno del ’71;

la lunga preparazione durava dal giugno del ’70):

recognitio áltera uti complicitus, di

EMILIO VILLA”

E ben presto porterà il suo lavoro in strada, dopo averlo pubblicizzato con un annuncio su quotidiano romano Il Messaggero: Da oggi per 100 persone sono disponibili gratuitamente prime 100 di 500 piastre-vettori marciapiede corso Vittorio angolo Baullari. Ettore Innocente.

L’operazione si ripeterà in vari punti della città e l’artista realizzerà una documentazione fotografica del suo lavoro.

Tra le numerose varianti del Take one, menzione speciale merita il lavoro intitolato Take one. 7 ore di calore umano diviso in 280 parti da minuti 1 e 30sec. , esposto anche a Tokio che pone l’accento su quel rapporto direi “fisico” tra l’artista e il fruitore che è una delle costanti della sua ricerca.

La riflessione sull’identità, l’uomo, il tempo, lo spazio si concretizza attraverso la proposta di oggetti-pretesto che attraverso l’esperienza estetica, conducano ad una presa di coscienza della propria condizione.

A partire dal 1972 mette in opera alcuni lavori in cui viene utilizzata l’impronta come segno evidente e inequivocabile di identità in contrasto con la tradizione del ritratto o dell’indagine sul sé: la traccia lasciata dall’artista è la sua immagine pubblica e gli elementi che formano chimicamente l’uomo definiscono la sua idea di natura umana, in cui si fonde rispetto per il singolo individuo nell’uguaglianza dei diritti fondamentali.

Si approfondiscono i contenuti con la verifica del tempo della propria esistenza attraverso l’emissione del soffio di fiato che sulla piastra speculare appanna la propria immagine e la ridona col suo consumarsi in “Sette piastre speculari” ; o nella possibilità di far girare provvisoriamente per “chiunque” l’infinito nel punto in cui si appoggi un oggetto quadrangolare in acciaio con uno degli angoli “smussato-consumato” (foto “Dove gira l’infinito “ 1976).

Scrive in proposito Emilio Villa:

Ogni opera operata da Ettore Innocente è indicibile fondazione di un radicale. Una barra, qui collocata in integra ambiguità, in giacitura non finita, è il radicale nuovissimo. …La barra, casualmente metallica, riduce in pura prensilità le regole del Possibile Totale, le norme libere del Libero Totale. Nessuna, o solo pochissime, delle sculture nei nostri tempi, è trono e urna di una intelligenza così gelida e così integra.

Nei primi anni Ottanta Innocente concepisce una serie di progetti in cui l’indagine sulla percezione visiva si affianca alla presenza di un enunciato che ne consente la realizzazione: per le quattro fasi de L’oggetto è in continua espansione (1982) “Chiunque dà un’informazione su questo oggetto realizza un mio lavoro”, mentre in Altra ipotesi sulla pittura(1983), “ Chiunque traguardando rileva una quantità casuale di blu sulla lastra realizza un mio lavoro ”

La fine degli anni Settanta coincide con un ritorno prepotente alla pittura normalizzante, che ritrova il suo centro ripiegando su sé stessa: Innocente ribadisce le proprie posizioni con la solita ironia e nella personale del 1983, di nuovo da Liverani, per “126 particolari sul vero”, realizza grandi frottages 1 a 1 di oggetti comuni, come una porta, una sedia, l’angolo tra due muri, una palanca da impalcature; particolari dell’oggettività fisica, rilevati in sviluppo, ridotti polemicamente e propositivamente a pura bidimensionalità; mentre la riflessione sullo spazio, prosegue con i bronzi, “scultura classica” ma con un’iconografia volutamente banale (macina caffè, sedia, bottiglia, …): questi oggetti-pretesto realizzati tra il 1984 e il 1985 che “affondano” sul pavimento o “entrano” nella parete, comunicano immediatamente il senso di precarietà dello spazio fisico, nell’annullamento dei diaframmi tra cosa e cosa, conducendoci in una riflessione dal quotidiano a categorie universali.

Collocando da sempre al centro della sua ricerca la pura essenzialità dell’uomo, come soggetto attivo, concreto attore di una realtà sociale economica politica urbana dominata dai mezzi di comunicazione di massa e dal consumismo più edonista, continua la propria indagine producendo una serie di opere e progetti che chiamano in causa come parte integrante la compartecipazione cosciente e fisica dello spettatore.

Con la mostra “Chiunque…” del 1986, un anno prima della sua morte, raggruppa quei lavori degli anni Settanta e Ottanta il cui enunciato contenga il pronome indefinito “Chiunque” : “Chiunque si fermi o passi davanti a questo colore, realizza un mio lavoro”. Questo ulteriore passaggio esplicita e ribadisce la centralità di ruolo, forse nella forma più radicale, della relazione che il pubblico deve intrattenere con l’oggetto esposto, assunta come indispensabile perché si attui un’esperienza estetica.

Simona Innocente