"Le sculture spericolate di Ettore Innocente"

Azione 1972 La Breve ma intensa vita di uno sperimentatore. L'utopia come motore di ricerca individuale e collettiva. C'è da chiedersi il perchè dell'oblio che avvolge il percorso artistico di questo intellettuale radicale e libero, vista la qualità della sua ricerca e i consensi collezionati. La risposta forse è da ricercare proprio nel suo carattere. Odiava il mercato (pochissimi i quadri venduti). Fino a quando le sue opere divennero, per scelta, addirittura invendibili.

Ettore Innocente era un uomo generoso nel lavoro come nella vita. Una volta – insegnava all’Accademia di Belle arti de L’Aquila – si portò a casa un’intera classe di studenti dopo averla condotta a visitare qualcosa di didatticamente interessante. Non fu facile sfamare quei giovani lupi piovuti dal cielo ma Isabella, la moglie di Ettore, ci riuscì agevolmente perché era abituata a questo tipo di imprevisti. Ettore era fatto così. La sua casa era aperta, come la sua opera.

Una profonda umanità nutriva in lui una naturale “disponibilità ad accogliere” che non era solo una questione di formale gentilezza. Era una cosa di sostanza. Indispensabile per il lavoro e quindi per la vita. Un punto di vista collettivo, direi quasi “consiliare”, dinamico, libertario e anarchico, uno sguardo che si spense troppo presto (nato a Roma nel 1934, Innocente se ne andò all’improvviso nel 1987). La traccia lasciata dalla sua opera è forte e significativa ma pressoché misconosciuta. Tutti quelli che lo hanno apprezzato in vita sono concordi, infatti, nel sostenere che il suo lavoro è colpevolmente sottovalutato. Per quanto mi riguarda, non posso che confermare le circostanze del “crimine”, riconoscendo ad Antonio Lombardi, artista a sua volta e grande amico di Innocente, il merito di avermi fatto conoscere anche attraverso la moglie e i figli, Simona e Luca, quello che di lui si deve sapere. Per Ettore, formazione artistica, famiglia e amicizia occuparono un unico spazio. Studi condivisi al centro di Roma. Trattorie e boheme. Ceroli, Mambor, Ricciardi, Mattiacci, Mochetti, Pascali. Con quest’ultimo condivise un rapporto di fraterna consuetudine. Come  pure con Kounellis e la sua Efi. Le serate con loro al “Faciolaro” di Via dei Prefetti, l’osteria coi tavoli di marmo, furono innumerevoli e appassionate. Erano gli anni Sessanta. Piazza del Popolo era l’ombelico del mondo. Tutto poteva succedere. Persino la rivoluzione. Quelle di Ettore furono le migliori gallerie: “La Tartaruga” di Plinio de Martiis e “La Salita” di Liverani. Di lui scrissero tutti: da Bonito Oliva a Calvesi, da Celant a Cesare Vivaldi a Fagiolo dell’Arco, fino al più indimenticabile dei dimenticati, il grande Emilio Villa che gli fu amico.

C’è da chiedersi il perché dell’oblio che avvolge il percorso artistico di questo intellettuale radicale e libero, vista la qualità della sua ricerca e i consensi collezionati. La risposta forse è da ricercare proprio nel suo carattere.

Ettore fu un uomo di (neo)avanguardia. Lentigginoso, robusto, sanguigno e barbuto era disponibile ad ogni convivio, di arte o di rigatoni all’amatriciana. Ma odiava il mercato (pochissimi i quadri venduti, due dei quali a Lucio Fontana). Fino a quando, superata la stagione del Pop, le sue opere divennero, per scelta, addirittura invendibili. Ancora meno vendibili, al tempo, di quelle di Manzoni (un sottile fil rouge collega questi due personaggi, e loro ad altri spiriti inquieti come Lo Savio, Yves Klein, De Dominicis, Boetti).

Quelle di Ettore Innocente degli anni Settanta e Ottanta saranno opere fatte di aria, di moltiplicazione di gesti singoli e collettivi in grado di disperdere nel mondo le parti di un tutto unitario disposto a frammentarsi e disperdersi per ottenere uno scopo: coinvolgere in un processo purissimo, non uno, ma mille complici fruitori disposti a portare in giro per il mondo un’utopia: quella di un’arte che non si vende e non si può comprare. Che vive dissolvendosi. Un’arte antimercenaria, sfacciata, volutamente ideologica, prepotente e dolcissima, disinteressata e sincera come un sorriso fatto a una persona che non conosci solo perché ha una faccia che ti piace.

Ecco, è facile capire come per uno così lo spazio dopo la morte sarebbe stato poco.

Quando Schifano, ormai stanco dei monocromi, consigliava a Tano Festa di mettere nei quadri un po’ di colore per venderli meglio, ecco più o meno in quel periodo Ettore Innocente smise di fare quadri per dire al mondo intero che il mercato era una schifezza. Come aspettarsi riconoscenza da un sistema dell’arte criticato così duramente alla radice? Ettore Innocente era stato, giovanissimo,

allievo di Ettore Colla che lo chiamava “il mio Pisanello” perché disegnava “troppo bene”. Ma dovette comprimere e disciplinare questa naturale attitudine per la scelta di fondo di una pratica antinarcisistica assoluta. Un concettualismo quasi ascetico caratterizzò la seconda parte della sua carriera. E’ cosi che già negli anni Sessanta nascono opere rigorose e belle più di quelle del Jim Dine del periodo migliore. La ragazza di Modigliani e Il riposo del guerriero con le imbottiture, quelle per cui Cesare Tacchi diventerà famoso. Ducotone, smalto, sagome e ritaglio erano materia e

forma del lavoro di Innocente insieme al durvil (materiale plastico) applicato su superfici ora piane ora ondulate. Innocente usò le tecniche in modo personale (insegnò “Tecniche dei nuovi materiali” all’Aquila e a Roma e poi “Incisione” a Napoli) e contribuì in modo sostanziale alla costruzione della iconografia pop romana (anche se sul termine pop ci sarebbe da discutere).

Ma i consensi ottenuti da Ettore non bastavano. Non bastava più l’oggetto d’arte, per quanto raffinato e impersonale prototipo. Già nel ’69 nacque 100 metri di libertà: dal centro dello studio una striscia di tela grezza avvolta può essere srotolata verso l’esterno. Nel ’71 alla galleria Gap - Arte espose uno dei primi esempi del ciclo Take one (Ipotesi per una dilatazione fruitiva), avviato nel 1970 e che rimarrà vitale per l’intero decennio e oltre. Si inaugura la seconda stagione dell’arte di Innocente. Il coinvolgimento del pubblico non è più un ornamento. Diventa indispensabile, non solo per la fruizione ma per la realizzazione stessa dell’opera. L’azione collettiva, il processo diventa il mezzo e il fine. Non c’è altro. Ma questa cosa è enorme. Durerà fino all’ultimo.

Scrive Giorgio De Marchis: «Take one 1970 è composta da tre opere destinate a realizzarsi come azione in continua dilatazione nello spazio mediante l’intervento dello spettatore partecipe, rispetto al quale il lavoro dell’artista ha il carattere originario di “gene” il cui totale esaurimento attraverso l’azione collettiva segna il compimento o meglio la nascita dell’opera. Per fare un esempio, una delle opere è inizialmente un parallelepipedo composto dalla sovrapposizione di alcune centinaia di piastrine di rame (…) che l’artista ha tenuto una per una tra le sue mani (…). Ogni piastrina-vettore rappresenta dunque poco più di un minuto di “calore umano” dell’artista.

Chiunque visita la mostra ne può portare via uno, fino ad esaurimento: la forma iniziale costruita dall’artista si dilata in particelle, attraverso i successivi prelievi, che seguitano a vivere e a spostarsi nello spazio infinitamente». Questa forza poetica rintraccia nella partecipazione collettiva a un processo, non solo una dimensione estetica, ma l’unica modalità per reagire al limite che ciascun individuo sperimenta come insopportabile. Questa forza non si è spenta mai in Ettore. E’ rimasta intrappolata nelle sue opere, nel suo pensiero. Liberiamola. Di questi tempi sarà un bene per tutti.

di Roberto Gramiccia

Liberazione 14 ottobre 2007